“Gli occhi sono lo specchio dell’anima”. Tutti conosciamo questo proverbio e lo abbiamo usato almeno una volta nella vita. Guardarsi lungamente negli occhi è una esperienza così coinvolgente dal punto di vista emotivo, da commuovere profondamente anche due sconosciuti che si incontrano per la prima volta, così come sosteneva nel 1997, lo Psicologo Arthur Aron nel suo saggio “Experimental generation of interpersonal closeness” (Creazione sperimentale di intimità interpersonale).
Guardarsi in silenzio per alcuni minuti senza mai distogliere lo sguardo e lasciando fluire le emozioni (famosa la performance dell’artista Marina Abramovic al MoMA di New York nel 2010) è incontrarsi in uno spazio e in un tempo che travalicano il quotidiano e il contingente. Non si tratta di classificare o giudicare una persona, ma di vivere un’esperienza così forte da sentire di essere in grado di leggerle l’anima.
La rappresentazione artistica degli occhi ha subito varie trasformazioni nel corso del tempo: dal simbolismo divino dell’occhio di Horus (occhio di Ra) degli antichi egizi, all’intensità degli occhi dalle sopracciglia arcuate dei romani; dai grandi occhi bizantini con il contorno dipinto di nero allo sguardo fisso, quasi stereotipato del Medioevo. Leonardo da Vinci, di cui tutti conosciamo lo sguardo famosissimo della Gioconda che sembra seguire il movimento di chi la guarda, descrisse così questa parte del viso: “L’occhio, dal quale la bellezza dell’universo è specchiata dai contemplanti… che chi consente alla sua perdita, si priva della rappresentazione di tutte le opere della natura”.
Vincent van Gogh affermò: “Preferisco dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali” e il grande Amedeo Modigliani dipinse i suoi quadri senza pupille perché: “Dipingerò i tuoi occhi solo quando conoscerò la tua anima”.
In tempi recenti, gli occhi sono stati spesso estrapolati dal contesto del volto, con risultati surreali come René Magritte in cui diventano fatti di cielo, formano un volto sospeso in aria, osservano lo spettatore al centro di un piatto, sembrano quasi guardare il mondo attraverso uno specchio deformato.
E, ancora, l’occhio di Escher, con un teschio riflesso sulla pupilla nell’opera intitolata appunto Occhio?
Ma questi occhi posti a metà tra il cuore e la testa, quale valore hanno per noi? Sono un ponte che unisce due sponde separate? Sono loro che tengono il filo del nostro sentire e del nostro pensare?
Molti studi hanno dimostrato che cuore e mente sono in costante comunicazione reciproca. Uno legato all’altro. Si parla di “coerenza cardiaca” come affermano gli studi dell’Istituto di ricerca HeartMath, centro riconosciuto a livello mondiale specializzato in fisiologia emozionale, studio della resilienza e gestione dello stress, psicofisiologia, neurocardiologia e biofisica.
La coerenza cardiaca avviene quando il ritmo cardiaco produce un pattern fatto di un’onda armonica. Quando sperimentiamo emozioni positive in maniera sincera, come il prenderci cura, la compassione, l’amorevolezza, l’apprezzamento, la gentilezza per qualcuno o qualcosa, il ritmo cardiaco diventa coerente e comunica questo schema armonico al cervello e a tutto il resto del corpo con un ritorno di ben-essere anche a livello emotivo e psicologico.
Insomma fare del bene…ci fa bene.
Nel laboratorio metteremo in relazione il nostro sentire con il nostro pensare attraverso i nostri occhi, cioè con lo sguardo con cui incontriamo noi stessi e l’altro da noi.