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Donne che ci insegnano

Ho letto da qualche parte che il dolore ci accomuna in quanto esseri appartenenti al genere umano. Io amplierei il concetto però, in quanto credo che il dolore appartenga a […]

Scritto da Federica Ciribì

Sono Architetto e Dottore di ricerca in Recupero Edilizio ed Ambientale. Sono abilitata all’insegnamento di “Arte e Immagine” e di “Disegno e Storia dell’Arte” presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e all’insegnamento di “Costruzioni, tecnologia delle costruzioni e disegno tecnico” presso l’Università degli Studi di Pisa.

Pubblicato il 7 Maggio 2023

Ho letto da qualche parte che il dolore ci accomuna in quanto esseri appartenenti al genere umano. Io amplierei il concetto però, in quanto credo che il dolore appartenga a ogni essere vivente sul nostro pianeta, sia esso una pianta o un animale, o un uomo appunto. Ciò che ci distingue semmai gli uni dagli altri, sia all’interno del genere che tra un genere e l’altro, è il modo di affrontarlo questo benedetto dolore, il modo di capirlo, la consapevolezza. E questo è molto soggettivo, sia che si tratti di dolore del corpo, sia esso della mente, sia esso dello spirito che io amo chiamare cuore, dandogli un posto che è facile da trovare nel nostro corpo. 

Il modo in cui Michela Murgia sta affrontando il suo dolore è un esempio per tutti noi. La scrittrice si è liberata dell’ossessione della morte come apice della vita e ha reso più importante la pienezza della sua esistenza rispetto alla forza della malattia, annullandola. Ha detto di “avere vissuto 10 vite” e che quindi non si strugge di avere una malattia terminale a soli 50 anni.

Una grande artista, Ketty La Rocca, ha saputo fare la stessa cosa, sublimando con i suoi lavori la propria patologia incurabile, in una serie di opere intitolate “Craniologie”. Come è possibile prendere la propria condanna a morte e riuscire a farne un’opera d’arte? Nessun artista lo aveva fatto prima di lei e lei fu prima in tante cose. Fu Ketty a produrre uno dei primi video d’arte mai comparsi sulla scena. Fu lei tra le prime a sperimentare la poesia visiva. Fu ancora lei a occupare lo spazio con sculture in forma di lettera in linoleum. Ketty comprese fino in fondo il significato dell’Arte Concettuale, assegnando al proprio pensiero un ruolo che andava oltre il valore del prodotto manuale. Il valore del suo lavoro così come di tutta l’Arte Concettuale risiede nell’idea da cui germoglia, non dal mezzo, né dalla tecnica usata per esprimerla. Ketty si mosse con disinvoltura tra performance, installazioni, quadri, accompagnando ogni opera con testi scritti che chiarivano la finalità dell’opera.

Delle “Craniologie” disse: “sono come un risvolto inconscio, forse immagini fetali, un gesto incapsulato”. Si tratta di lastre radiografiche del suo cranio dalle quali è possibile scorgere la massa tumorale che la uccise, alle quali sovrappose immagini della sua mano in diversi atteggiamenti e la scritta ripetuta “You You”. Questo suo accettare l’ospite indesiderato, il nominarlo, il ricorrere all’immagine del feto, è lo stesso processo a cui ricorre Murgia per darci il suo esempio di vita. Michela ci dice infatti: “Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono”.

Chapeau Michela.

Chapeau Ketty.

Noi altri non ci accettiamo per molto meno.

3 Commenti

  1. martina

    Non capisco perché avete eliminato il mio commento. Ho messo in evidenza un’informazione errata che qualcuno ha riportato molto tempo fa e che continua ad essere ripetuta…
    Almeno potevate correggere l’articolo!

    Rispondi
  2. martina

    Ketty La Rocca non aveva un tumore alla testa e quindi nella serie “Craniologie” non è possibile vedere ‘la massa tumorale che la uccise’, come scrive nel suo articolo. Ketty La Rocca aveva un tumore, ma non al cervello. E’ un informazione errata che qualcuno ha riportato molto tempo fa e che continua ad essere ripetuta.

    Rispondi
    • Federica Ciribì

      Gentilissima Martina, innanzitutto nessuno ha cancellato niente. Questa è una pagina seria e io sono una persona seria. Quindi la invito a respirare profondamente prima di lanciare accuse infondate. Nessuno dei suoi due commenti era stato ancora approvato, semplicemente perché non avevamo visto che c’erano commenti in attesa di approvazione. Lei sicuramente sarà una fonte attendibile, non lo metto in dubbio. Io credo che Costantino D’Orazio possa essere ritenuto attendibile almeno quanto lei. Poi tutti sbagliamo, io per prima. Nei miei articoli non pubblico mai e dico mai informazioni scaricate da internet ma sempre apprese su libri pubblicati dai numerosi e competenti storici dell’arte che abbiamo nel nostro paese. Quindi, se ritiene che io abbia sbagliato, la invito a citare la fonte. La mia è Costantino D’Orazio, Vite di artiste eccellenti, Editori Laterza, Roma 2021. Ho citato nello specifico il contenuto delle pagine 189, 190 e 191. Con quale serietà potrei modificare un articolo solo a seguito di un commento che non cita fonti? E poi comunque esistono numerose e diverse modalità per affrontare queste situazioni. Io ad esempio avrei scritto privatamente, citato la fonte, invitando a confrontarsi con la fonte stessa per offrire questo punto di vista alternativo all’interno dell’articolo. Ma forse lei crede nelle verità assolute. Io da ricercatrice, no. Credo nelle fonti e nella possibilità di errore, nella soggettività d’interpretazione e nella molteplicità dei punti di vista. Cordiali saluti

      Rispondi

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